Sintomi da artrite reumatoide

Artrite reumatoide: come intervenire con la fisioterapia?

Cos’è l’artrite reumatoide

L’artrite reumatoide è una malattia autoimmune ed è uno dei tipi più comuni di infiammazione cronica. Nel 2017 si è addirittura stimato che sia presente in 19milioni di casi in tutto il mondo, con un aumento del 7,4% dal 1990. È più comune nelle donne e può manifestarsi a qualsiasi età, con l’età più comune tra i 50 ei 60 anni.

La principale manifestazione clinica è la poliartrite infiammatoria simmetrica, ma ci sono anche manifestazioni extraarticolari, come il coinvolgimento polmonare, la vasculite e la sindrome sistemica. Stanchezza, artrite e deformità sono le principali complicanze dell’artrite reumatoide, che portano alla compromissione della funzione corporea. Anche altri sintomi come fatica e dolore vanno ad influire in maniera sostanziale sulla disabilità e soprattutto sulla qualità della vita dei pazienti.

Come si tratta l’artrite reumatoide

Viste le caratteristiche dell’artrite reumatoide, una gestione incentrata sui sintomi a livello articolare non risulta sufficiente. Bisogna infatti considerare anche gli aspetti di benessere generale e psicosociale. Per fare ciò risulta adatto l’esercizio fisico, che oltre a migliorare la sintomatologia della patologia allevia anche un eventuale stato emotivo negativo.

È opportuno intervenire con un approccio specifico per ogni paziente, infatti gli esercizi devono essere scelti considerando anche le condizioni di partenza. L’attività ad alta e media intensità, con particolare focus verso gli esercizi dinamici, tende ad avere i migliori effetti a livello cardiovascolare e muscoloscheletrico, ma deve essere sempre messa molta attenzione sulla gravità dell’articolazione colpita.

Per quanto riguarda la durata dell’allenamento si possono anche prevedere programmi brevi al di sotto dei 6 mesi, ma quelli più efficaci risultano essere quelli di 6-12 mesi. Questi infatti permettono di avere un controllo e una gestione ottimale del dolore.

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Impingement femoro-acetabolare a carico dell'anca

L’impingement femoro-acetabolare: cos’è e come si tratta

L’impingement, o conflitto, femoro-acetabolare (Femoroacetabular Impingement FAI) è un contrasto a livello articolare che si manifesta come un forte dolore all’anca o all’inguine. Questo può apparire sia in correlazione a un movimento che mantenendo a lungo una posizione statica.

Cos’è l’impingement femoro-acetabolare

Si tratta di un disturbo a carico dell’anca, dovuto a un contatto anomalo tra i due capi articolari. In una condizione di normalità la testa del femore si articola nell’acetabolo senza alcun contatto. In caso di impingement si ha una frizione, quindi i due capi articolari non combaciano come dovrebbero.

Questo conflitto può essere dovuto a due tipi di deformità:

  • Pincer (a pinza) che si ha quando l’acetabolo stringe come una pinza la testa del femore
  • Cam (a camma) cioè quando la testa del femore non è sufficientemente sferica e quindi duramente il movimento sfrega contro l’acetabolo

Di frequente si ha una forma mista, cioè quando le deformità sono entrambe presenti. In ogni caso l’urto tra i capi articolari contribuisce all’usura dell’articolazione.

Trattamento

Per trattare l’impingement femoro-acetabolare si prevede un approccio conservativo. Il primo passaggio deve essere la riduzione dell’attività fisica che grava sull’anca, concentrandosi invece su una rieducazione gesto-specifica. Questa fase può essere integrata con l’assunzione di farmaci anti-infiammatori non steroidei e con i ricorso a terapie strumentali.

Nel 2018 uno studio pubblicato da Pennack et Al su American Journal of Sports Medicine (leggi qui) ha dimostrato l’efficacia del trattamento conservativo per il conflitto femoro-acetabolare. Nello specifico ha analizzato la probabilità che un giovane atleta (età inferiore a 21 anni) torni all’attività sportiva: il trattamento conservativo è risultato efficace nel 82% dei casi.

Solo nel caso in cui il dolore all’anca non scompaia grazie alle cure conservative si passa a un approccio chirurgico. Questo viene solitamente eseguito in artroscopia ed è consigliato per pazienti giovani e sportivi che non riescono ad allenarsi in modo performante.

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Paziente affetto da inibizione muscolare artrogenica

Inibizione muscolare artrogenica

L’inibizione muscolare artrogenica (Arthrogenic Muscle Inhibition – AMI) è un disordine neuro‑riflesso che provoca debolezza e incapacità di attivare completamente il quadricipite, anche in assenza di danni diretti al muscolo o al nervo.

Questa inibizione si osserva in seguito a un trauma o a un intervento chirurgico come la ricostruzione del legamento crociato anteriore, gonfiore acuto o condizioni degenerative (es. osteo‑artrosi), e può compromettere la funzionalità motoria e la stabilità dell’articolazione del ginocchio.

I meccanismi dell’AMI non sono ancora del tutto noti, ma l’unica cosa certa al momento è come sia in parte causata dall’impossibilità di sviluppare la forza contrattile del muscolo.

L’inibizione muscolare artrogenica è clinicamente importante poiché porta ad una diminuzione della funzionalità fisica. Inoltre si aggiunge alle conseguenze sopracitate la debolezza del quadricipite causa un incremento del carico sul ginocchio con una conseguente perdita di tessuto cartilagineo ed una riduzione dello spazio articolare con conseguente artrosi precoce. È quindi per tutti questi motivi che risulta fondamentale un intervento tempestivo.

Importanza clinica e impatti funzionali

Riduzione della forza

Il quadricipite subisce una riduzione dell’attivazione volontaria fino al 30‑50% anche oltre 10‑15 giorni dall’insulto articolare. Può persistere una forma lieve di AMI anche a distanza di 6‑12 mesi o oltre, specie dopo artroplastica o lesione cronica.

Instabilità articolare e rischio di recidiva

Una perdita di forza muscolare e propriocezione aumenta il rischio di instabilità funzionale del ginocchio e recidiva di traumi. In caso di LCA, meniscopatia o artrosi precoce, l’AMI diventa un fattore cronico che impedisce il pieno recupero.

Prevenzione artrosi

Il carico assiale scorretto, promosso da un quadricipite sotto‑attivato, determina uno stress articolare elevato e un progressivo consumo cartilagineo. L’intervento tempestivo è dunque essenziale per prevenire degenerazione e osteo‑artrosi.

Strategie terapeutiche efficaci per contrastare l’AMI

Diversi studi hanno mostrato come la strategia migliore per gestire questa condizione sia:

  • Crioterapia, cioè l’applicazione di ghiaccio o cryo-packs direttamente sull’articolazione. Funziona soprattutto in fase acuta (entro 48‑72 ore). Riduce l’eccitabilità degli interneuroni inibitori, modula i recettori cutanei e diminuisce l’attività riflessa inibitoria verso il quadricipite portando ad un miglioramento significativo.
  • Fisioterapia, ovvero l’esercizio terapeutico con esercizi mirati e specifici per ogni paziente.

Il percorso fisioterapico, fra le altre cose, deve concentrarsi su esercizi di resistenza e rafforzamento muscolare.

Terapie strumentali come ultrasuoni ed elettrostimolazione, invece, si sono dimostrate poco efficaci per il trattamento dell’inibizione artrogenica.

Studio di riferimento: Arthrogenic muscle inhibition after ACL reconstruction: a scoping review of the efficacy of interventions

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La fibromialgia provoca dolori diffusi

Fibromialgia: come alleviare i disturbi grazie alla fisioterapia

La fisioterapia scende in campo come fedele alleata dei pazienti affetti da fibromialgia. Sempre più studi infatti dimostrano come il trattamento non farmacologico sia il più efficace. Così anche EULAR (European League Against Rheumatism) raccomanda la gestione del paziente fibromialgico tramite l’utilizzo di esercizi mirati al miglioramento della forza resistente e della capacità aerobica.

Cos’è la fibromialgia

La fibromialgia è una patologia cronica caratterizzata da dolori muscolari diffusi associati ad affaticamento, rigidità, problemi di insonnia, difficoltà di concentrazione e alterazioni dell’umore.

Le cause esatte dell’insorgenza di questa malattia non sono ancora note, ma gli esperti suppongono un’origine multifattoriale. Tra questi includono fattori genetici, infettivi, ormonali, traumi fisici e psicologici. L’ipotesi più plausibile è che venga compromesso il modo in cui il cervello processa il dolore, infatti chi soffre di fibromialgia avrebbe una soglia del dolore più bassa alla media.

Diagnosi di fibromialgia

La diagnosi della fibromialgia si basa su presenza e persistenza di dolori diffusi ma risulta particolarmente lunga perché gli specialisti devono prima escludere ogni altra possibile patologia. Si stima infatti che ci vogliano più di 2 anni per riconoscere la fibromialgia, con una media di 3,7 medici diversi consultati.

I numeri parlano del 2% della popolazione mondiale colpita da questa malattia, con una maggiore influenza sulle donne in età adulta.

Trattamento della fibromialgia

Le linee guida EULAR sul trattamento della fibromialgia di basano sullo studio di G. J. Macfarlane (puoi leggerlo qui) che si è posto come obiettivo la revisione delle indicazioni terapiche basandosi sull’evidenza scientifica.

Sulla base di questo studio, e di altri precedenti, si può affermare che il primo passo per la gestione della fibromialgia deve essere l’educazione del paziente. E’ stata infatti evidenziata l’importanza di far comprendere al soggetto la situazione clinica e i vari fattori che la influenzano, in modo tale da poter agire anche sull’aspetto biopsicosociale.

Il secondo passo deve essere poi un approccio non farmacologico, con particolare attenzione al miglioramento di:

  • Forza resitente, cioè la capacità del muscolo di durare per un tempo relativamente lungo
  • Capacità aerobica, cioè la quantità di tempo in cui si riesce a tenere ritmi elevati

Nel caso in cui queste terapie non risultino efficaci si può considerare un approccio combinato, valutando anche terapie farmacologiche. Si è visto che piccoli miglioramenti sono stati ottenuti con:

  • Agopuntura, con un miglioramento del dolore del 30%
  • Agopuntura ed elettricità, con un miglioramento del dolore del 40% e dell’affaticamento del 20%

Si sono invece dimostrate scarsamente efficaci le terapie meditative, così come il biofeedback, l’ipnoterapia e il massaggio.

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Metodo peace & love per distorsione alla caviglia

PEACE & LOVE, ecco il metodo per guarire da un trauma muscolare.

Quante volte ti sei chiesto come comportarti dopo una distorsione alla caviglia o un trauma muscolare? La risposta più efficace oggi è l’acronimo PEACE & LOVE!

PEACE & LOVE è stato proposto per la prima volta da alcuni autori su British Journal of Sports Medicine per sostituire definitivamente il R.I.C.E. e rappresenta il nuovo protocollo per le lesioni dei tessuti molli. Oltre alla gestione del danno nell’immediato, il protocollo si pone obiettivi a lungo termine, infatti non agisce esclusivamente sull’infortunio ma lavora sulla persona, in modo tale da abbattere il rischio di recidiva.

Fino ad oggi gli approcci più conosciuti erano ICE (ghiaccio-compressione-elevazione), RICE (riposo-ghiaccio- compressione-elevazione) e POLICE (protezione-carico ottimale–ghiaccio-compressione-elevazione), ma nel tempo si sono dimostratati poco efficaci.

Capiamo meglio cosa significa la sigla PEACE & LOVE

Subito dopo l’infortunio, si parla di P.E.A.C.E., cioè:

  • Protezione, bisogna infatti salvaguardare l’arto infortunato da ulteriori traumi
  • Elevazione dell’arto per ridurre il ristagno di liquidi
  • Antinfiammatori, NON assumerne! Il corpo ha bisogno di un processo di guarigione fisiologica, assumerne significherebbe solo ritardare questo processo
  • Compressione, un bendaggio appositamente confezionato aiuta a riassorbire i liquidi e quindi a ridurre il gonfiore
  • Educazione, il paziente deve essere informato sulle tutte le fasi della guarigione e sull’importanza della fisioterapia attiva, riducendo così al minimo le sedute passive che risultano poco utili alla ripresa

La settimana successiva al trauma si può passare al L.O.V.E., ovvero:

  • Load (carico), aumento progressivo del carico rispettando il dolore
  • Ottimismo, fortunatamente non siamo fatti solo di muscoli ed ossa! Anche il nostro aspetto psicologico vuole la sua parte, un approccio positivo è uno dei punti chiave per una guarigione ottimale
  • Vascolarizzazione, passato altro tempo è possibile riprendere una blanda attività cardiovascolare per restituire una corretta circolazione sanguigna ai tessuti e facilitarne quindi la guarigione
  • Esercizi, se tutto procede bene e i parametri come dolore e gonfiore lo permettono, possiamo iniziare un lavoro specifico per tornare alle attività della vita quotidiana e allo sport

Riassumendo, nella prima fase è importante proteggere la struttura lesionata, cercando di evitare le attività che aumentano il dolore. Da sottolineare è il consiglio di evitare l’utilizzo degli anti-infiammatori, ancora largamente usati nella pratica clinica.

Nella seconda fase invece si pone l’attenzione sull’aumento di carico e sulla progressione dell’esercizio a discapito di trattamenti passivi e del riposo completo.

Perché R.I.C.E. è superato?

Il protocollo R.I.C.E. (Rest, Ice, Compression, Elevation), pur essendo stato per anni il riferimento nella gestione dei traumi, non tiene conto delle risposte biologiche e neurofisiologiche necessarie per un recupero completo. Gli studi più recenti dimostrano come l’eccessiva immobilizzazione e il solo controllo del dolore non siano sufficienti per favorire una vera guarigione tissutale.

Domande frequenti su PEACE & LOVE

Il protocollo PEACE & LOVE si applica solo agli sportivi?

No, può essere utile anche a persone sedentarie o anziani dopo traumi muscolari o articolari.

Serve il ghiaccio in caso di trauma?

La crioterapia può avere un ruolo nella fase iniziale, ma non va prolungata per giorni: il recupero richiede movimento e carico guidato.

Quando posso tornare a fare attività fisica?

Dopo una valutazione professionale, il fisioterapista può programmare un rientro progressivo e sicuro in base alla fase di recupero.

Hai subito un trauma muscolare o articolare?

Nel mio studio applico il protocollo PEACE & LOVE nei percorsi di riabilitazione sportiva e il recupero da lesioni ortopediche.

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Lesione legamento crociato anteriore

Legamento crociato anteriore, operarsi o no?

Ritorno allo sport dopo la lesione

Dopo una lesione del legamento crociato anteriore (LCA) è possibile tornare a praticare sport senza un intervento chirurgico. La raccomandazione più recente nella gestione di soggetti con una lesione del LCA è infatti quella di affrontare un’adeguata riabilitazione, cioè trattarli in modo conservativo. (https://misuse.ncbi.nlm.nih.gov/error/abuse.shtml)

Cos’è il legamento crociato anteriore?

Il legamento del crociato anteriore è uno dei quattro legamenti più importanti del ginocchio. E’ così definito perché insieme al suo omonimo posteriore si incrocia al centro dell’articolazione. La sua funzione è quella di stabilizzare il ginocchio, infatti impedisce che la tibia si sposti in avanti rispetto al femore.

Il legamento crociato anteriore è sottoposto ad estreme sollecitazioni, soprattutto in sport con cambi di direzione. La sua lesione è infatti uno dei traumi sportivi più frequenti. (Scopri la Fisioterapia sportiva)

Studio KANON

Su questo tema lo studio KANON ha mostrato che solo il 51% dei pazienti trattati conservativamente ha richiesto in seguito un intervento chirurgico. Lo studio ha valutato il livello di ripresa dell’attività sportiva (RTS) dopo una lesione del LCA in pazienti che hanno seguito un programma di riabilitazione incentrato principalmente sul recupero della forza e della stabilità dinamica.

I soggetti sono stati contattati dopo 12 mesi dall’infortunio e la maggior parte ha dichiarato di aver modificato l’attività sportiva. Nello specifico hanno detto di prestare una maggiore attenzione ai movimenti e in particolare all’appoggio del piede. Secondo lo studio infatti l’89% dei pazienti non chirurgici è tornato a praticare sport senza bisogno di un intervento chirurgico. Inoltre il 33% dei pazienti trattati praticava uno sport che prevede cambi di direzione e l’11% svolgeva attività a livello competitivo.

In conclusione lo studio KANON mette in evidenza l’importanza della fisioterapia nei soggetti con lesione del legamento crociato anteriore screditando così il tradizionale approccio di ricostruzione chirurgica.

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In evidenza una spalla congelata, o capsulite adesiva

Spalla congelata: intervieni tempestivamente!

Cos’è la spalla congelata?

La spalla congelata, detta anche capsulite adesiva o frozen shoulder, è una patologia della spalla che porta a una riduzione del movimento dell’articolazione. È spesso accompagnata da dolore alla spalla e se non trattata in modo tempestivo può portare alla totale rigidità. La capsulite adesiva ha un’incidenza del 3% sulla popolazione ed è più diffusa tra le donne di età compresa tra i 40 e i 60 anni.

Si può dividere in due categorie:

  • Spalla congelata primaria, che non ha una causa scatenante ed è la più diffusa.
  • Spalla congelata secondaria, cioè correlata a una o più cause che possono essere sistemiche, come il diabete, o localizzate come ad esempio una prolungata immobilizzazione in seguito a un trauma.

Quali sono i sintomi della spalla congelata?

Il sintomo più diffuso della capsulite adesiva è l’impossibilità di movimento nelle varie direzioni. Inoltre si presenta spesso un dolore notturno aspecifico, cioè non riconducibile a un trauma o un’attività specifica.

La patologia si sviluppa generalmente in 3 fasi:

  1. Congelamento, o freezing, ossia la progressiva perdita di movimento e un aumento del dolore. Questa fase dura 3 o 4 mesi.
  2. Rigidità, o frozen, cioè la fase in cui il dolore generalmente diminuisce ma la rigidità permane. Dura dai 4 ai 12 mesi.
  3. Scongelamento, o thawing, ovvero la fase risolutiva durante la quale si ha un recupero parziale o totale e un graduale ritorno alla normalità.

Trattamento della spalla congelata

Il trattamento della spalla congelata ha come obiettivo il recupero funzionale dell’articolazione e quindi della mobilità. Questo viene affidato al fisioterapista che ha un approccio conservativo, cioè interviene con fisioterapia, terapie fisiche e terapie farmacologiche di antinfiammatori.

In alcuni casi possono essere indicate delle infiltrazioni di cortisone al fine di ridurre l’infiammazione articolare e quindi il dolore.

Laddove le terapie non dovessero essere efficaci e il dolore dovesse limitare le attività quotidiane si può intervenire chirurgicamente. Il trattamento chirurgico viene fatto in artroscopia e consente un rapido avvio della riabilitazione già il giorno dopo l’intervento.

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